LA NATIVITÀ NELLA STORIA DELL’ARTE

LA NATIVITÀ NELLA STORIA DELL’ARTE

La prima Natività di cui si ha memoria nella storia dell’arte è quella ritrovata nelle catacombe di Priscilla, del III secolo, ma sono tanti i grandi maestri che si sono cimentati a rappresentare questo evento particolarmente sentito.

di Pasquale Di Matteo

Il desiderio dei primi Cristiani romani, di rappresentare la natività descritta dai Vangeli, trovò declinazione nella natività scoperta nelle catacombe di Priscilla, risalente al III secolo.

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Si tratta di uno stucco rinvenuto in una delle nicchie ricavate nei tredici chilometri di gallerie sotterranee, nelle quali sono custodite anche le spoglie di sette Papi, tra cui quelle di Celestino I.

La scena rappresenta Maria, che, in primo piano, tiene in braccio Gesù, mentre, più indietro, un uomo indica una stella; la distanza tra la figura della Madonna e quella dell’uomo è motivo di ipotesi differenti: secondo alcuni studiosi, infatti, l’uomo sarebbe un profeta, mentre, per altri, si tratterebbe di Giuseppe.

Una natività particolare, non solo per il dubbio sulla figura di Giuseppe, ma anche per l’assenza dei pastori.

Tuttavia, sono diversi i pittori che, nella storia, si sono cimentati nel rappresentare la natività, dando luce a capolavori quali: l’Adorazione dei Pastori, di Andrea Mantegna, tra il 1450 e il 1451; L’Adorazione del Bambino di San Vincenzo Ferrer, di Filippo Lippi, tra il 1455 e il 1466; La Natività, di Lorenzo Lotto, del 1523; la Natività di Gesù, di Giotto, tra il 1303 e il 1305; Natività Mistica, di Sandro Botticelli, del 1501; La Sacra Famiglia con un Pastore, di Tiziano, del 1510; La Natività, di Caravaggio, del 1609; L’Adorazione dei Pastori, di Pieter Paul Rubens, del 1608; Natività Allendale, di Giorgione, intorno al 1505; La Natività, di Albrecht Durer, del 1504; Madonna col Bambino, di Jean Fouquet, intorno al 1450; La Natività, di Piero della Francesca, tra il 1470 e il 1475; La Natività, di Carlo Maratta, del 1650; Adorazione del Bambino, di Gerrit van Honthorst, del 1620; Adorazione dei Pastori, di Charles Le Brun, del 1689; The Nativity, di John Singleton Copley.

Tutte opere splendide e di indubbio spessore, delle quali approfondiamo le più suggestive e intriganti, quanto a stile, originalità, e a ricchezza di segni e di simboli.

LA NATIVITÀ DI GESÙ (GIOTTO)

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A cavallo tra l’epoca medievale e l’era moderna, si colloca la Natività di Giotto, realizzata tra il 1303 e il 1305, opera che fa parte delle Storie di Gesù, in cui il grande maestro ha rappresentato alcuni episodi importanti della vita del Cristo, nella Cappella degli Scrovegni, a Padova.

Il primo elemento che balza all’occhio è senza dubbio la presenza di un Giuseppe pensieroso, con il capo chino, quasi incredulo, posto lontano da Maria e dal bambino, fuori dalla mangiatoria, a simboleggiare il ruolo secondario del falegname rispetto al figlio e al vero padre di Gesù; la sua veste è bianca e gialla, i colori della luce, del cambiamento, che richiamano l’avvento di un nuovo mondo, mentre il mantello bruno testimonia la rinuncia alle gioie terrene.

Altro particolare è la presenza di una levatrice accanto alla mangiatoia, che aiuta Maria nell’assistere il nascituro, elemento a cui Sineddoche attribuisce il simbolo dell’offerta di Gesù al mondo, tant’è vero che la Madonna abbraccia il figlio in maniera protettiva, ma anche quasi a volerlo porgere all’atra donna, mentre insieme lo adagiano nella greppia, metafora della povertà e dell’umiltà in cui Dio ha deciso di donare il proprio figlio.

Sopra la mangiatoia, incastonata tra le rocce di un paesaggio montuoso, degli angeli pregano, mentre un altro spiega ad alcuni pastori che il bambino nella mangiatoia è divino.

Il bue e l’asino rappresentano gli Ebrei e i pagani, mentre il piccolo gregge la Chiesa che nascerà dalla figura di Gesù, la cui aureola è cruciforme, proprio a testimoniare l’ascesa alla vita eterna dopo il sacrificio sulla croce.

L’azzurro del mantello indossato da Maria la collega al cielo, all’immensità dell’infinito e al mondo divino che la Vergine ha accolto in sé, mentre il rosso della sua veste simboleggia il sangue che verserà suo figlio per l’umanità.

NATIVITA’ MISTICA DI BOTTICELLI

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Sandro Filipepi, detto il Botticelli, morì il 17 maggio 1510, all’età di sessantacinque anni, isolato e in povertà, dopo alcuni anni di inattività.

Il suo ultimo grande capolavoro fu proprio la Natività Mistica, dipinta nel 1501, probabilmente destinata a qualche famiglia nobiliare.

L’opera tratta della nascita di Cristo e del suo ritorno sulla Terra prima del Giudizio Universale.

La struttura del quadro non segue la prospettica dell’epoca, ma si rifà alle regole medievali, che prevedevano di collocare i soggetti a seconda della gerarchia religiosa.

La parte superiore della tela reca un cartiglio con una scritta in Greco che fa riferimenti alle profezie della sottomissione della Città Santa ai pagani (Gentili) e della caduta di Satana.

Al centro della scena è collocata la grotta della natività, sormontata da una tettoia di paglia, dal cui sfondo forato si intravede il bosco in cui essa è collocata.

Il nascituro è posto al centro, su un giaciglio coperto da un telo bianco, mentre la Vergine Maria è collocata a destra e San Giuseppe a sinistra, con il bue e l’asino alle loro spalle.

Dalla parte sinistra, un arcangelo, riconoscibile dalla veste rosa, accompagna i Magi alla grotta, con le loro corone d’alloro, simbolo di sapienza, mentre, dalla parte opposta, un angelo vestito di bianco indica ad alcuni pastori la via per giungere a Gesù, con i loro ramoscelli d’ulivo, simbolo di pace.

Sulla grotta, vi sono due registri di angeli: quelli superiori danzano, volteggiando nell’aria, formando un cerchio, allegoria della vita e della perfezione dell’infinito, mentre quelli del registro inferiore stanno sulla tettoia, con indosso una veste bianca, una rossa e una verde, a simboleggiare le tre Virtù teologali: Fede, Carità e Speranza; i tre angeli reggono un libro, che comunemente viene individuato nell’Apocalisse, proprio per il messaggio dell’opera, che tratta anche della seconda venuta di Gesù, ovvero della Parusia, la discesa sulla Terra prima del Giudizio Universale.

In primo piano, si ritrovano le tre Virtù ad abbracciare uomini dalle tempie ornate d’alloro, probabilmente dei letterati, non soltanto per gioire della nascita del figlio di Dio, ma anche  come simbolo di fratellanza, mezzo con il quale sconfiggere il male, oltre che di riconciliazione tra umanità e Dio.

Ai loro piedi, ci sono alcune figure demoniache trafitte da forconi, metafora della sconfitta del male.

L’opera è stata acquistata dalla National Gallery di Londra, nel 1848.

ADORAZIONE DEL BAMBINO, DI GERRIT VAN HONTHORST

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Probabilmente dipinto nel 1620, quest’opera di Gerrit Van Honthorst, detto anche Gheraldo delle Notti, è conservata nella Galleria degli Uffizi di Firenze, insieme a un’altra natività in notturna del pittore olandese.

Se c’è un dipinto che trasmette la magia unica della notte di Natale, quello è senza dubbio l’Adorazione del bambino di Honthorst, la cui atmosfera ovattata è il frutto di un uso della luce straordinario, pacato, dalla raffinata armonia.

Il bambino appena nato è posto al centro della scena, in una mangiatoia, adagiato su un panno bianco da cui si propaga la luce che accarezza i volti di Maria, di Giuseppe e di due angeli che gli stanno intorno, in adorazione.

Anche in quest’opera, la figura di Giuseppe è in secondo piano, rispetto a quella di una giovane Maria, così come il volto risulta più in penombra, a rappresentare proprio il suo ruolo marginale, che, tuttavia, manifesta amore e devozione per il bambino.

Il mantello della Vergine è blu, a richiamare il collegamento con il mondo divino che ha accettato di far crescere in sé, così come la veste rossa è metafora del sangue che verserà il figlio di Dio per salvare l’umanità.

Gli angeli sulla sinistra esprimono il cambiamento, con la veste bianca e gialla di quello in primo piano, e la grandezza del regno dei cieli e di un futuro trasparente, con quella azzurra dell’altro.

THE NATIVITY, DI JOHN SINGLETON COPLEY

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Uno dei più grandi artisti del Neoclassicismo statunitense, John Singleton Copley, dipinse The Nativity nel 1777.

Si tratta di una delle natività più atipiche e, proprio per tale motivo, tra le più suggestive della Storia dell’Arte.

Nella scena rappresentata, Copley alleggerisce la classicità della natività, tralasciando alcuni elementi che si ritrovano, invece, in quasi tutte le altre opere sul tema: in primo luogo, la Vergine non è vestita di rosso e non ha nemmeno il mantello blu, ma indossa un abito bianco, puro, a testimoniare la sua verginità, sebbene l’espressione del volto non sia quella solita, di madre adorante, perché qui sembra più pensierosa, ma comunque protettiva nei riguardi del nascituro.

Una luce che giunge dall’alto, dal mondo divino, le illumina il viso, così come quello del pargolo, in un chiaro riferimento all’importanza che rivestono le figure di Gesù e della Madonna per la Chiesa.

Il bambino non è posto in una mangiatoia, ma su di un giaciglio di paglia ricoperta da un lenzuolo bianco, adagiato su un cuscino anch’esso bianco, a manifestare la purezza e il simbolo del cambiamento.

Anche in quest’opera, San Giuseppe è posto più lontano rispetto al bambino e a sua madre, anche se la luce divina lo investe e non lo lascia in penombra, come nel caso di Van Honthorst; la sua veste è verde, come la Virtù teologale della Speranza, e rappresenta il rinnovamento spirituale, il senso di rinascita, senza considerare il fatto che il verde smeraldo è anche simbolo di castità e di vittoria sui bassi istinti.

Non ci sono angeli con le ali e manca anche l’asino, sostituito da un secondo bue, mentre, a sinistra, in primo piano, un pastore con una maglia azzurra indica il bambino; essendo l’azzurro simbolo della limpidezza, nell’arte iconografica, ciò è un chiaro messaggio che rende omaggio alla purezza di Gesù.

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